Di Pietro Bruno
PREMESSA
Carissimo Raffaele, ti invio questo mio racconto che spero tu voglia pubblicare sul sito, esprimendo il mio forte rammarico e dispiacere che ho avuto nell’apprendere la notizia che giorni fa alcuni posti da me citati nello scritto sono stati distrutti dalle fiamme.
Questa degli incendi è purtroppo una piaga che puntualmente si apre ad ogni estate e che anno dopo anno ci porta via parte del nostro patrimonio boschivo.
Dolosi? Colposi? Non si sa. Una cosa è certa, dopo tantissimi anni, ancora non è stata data una risposta adeguata alla prevenzione di tale grave fenomeno.
Spero non sia questa estate simile all’estate di qualche anno fa dove il fuoco ha praticamente distrutto metà dei boschi nella provincia di Cosenza.
Ognuno faccia la propria parte, e tu con il sito, facendo conoscere tali efferatezze, fai una meritevole opera di sensibilizzazione di cui ti siamo tutti riconoscenti.
Detto questo, aggiungo che se immediatamente pubblicato, il mio scritto seguirà alla maestosità letteraria di Fratello Giovanni, che adoro e che saluto. Spero non sfiguri eccessivamente di fronte all’immenso talento a cui mi inchino con rispetto.
I miei ricordi adolescenziali si sincronizzano e si intrecciano, quasi a fondersi, con le quattro stagioni dell’anno.
E’ come se avessi, mentalmente, incardinato tutti i ricordi, in modo imprescindibile ed inseparabile, nel contesto delle stagioni e del trascorrere di esse e il rievocarli mi porta a rivivere la bellezza e le peculiarità che ognuna di esse assume o meglio, assumeva, visto che ora non esistono più, specialmente nel bellissimo contesto naturale dove sorge il nostro paese.
Non ho nessuna preferenza tra le quattro, anche perché, ognuna di esse, per le sue specifiche caratteristiche, mi affascina e mi riporta a bellissimi momenti della vita e non nascondo di avere un senso di disapprovazione, quando due di queste, nel linguaggio comune, vengono definite stagioni “intermedie”, quasi a voler con tale termine, privarle di una loro specificità ed originalità, assurgendole in qualche modo a stagioni di mera connessione tra le due stagioni principali, l’Inverno e l’Estate , dando, a queste ultime, rilevanza principale, in quanto , caratterizzate da manifestazioni atmosferiche più marcate ed estreme .
E’ proprio da una di queste due stagioni “intermedie”, l’Autunno”, che voglio iniziare il mio racconto. L’Autunno, il cui esordio, da noi, coincide con un evento molto importante e al quale siamo tutti noi, non solo io, legati da piacevoli ricordi ; la Fiera del Pettoruto.
Bellissima manifestazione religiosa e pagana, che inizia il primo settembre, alla quale, i primi accenni d’ Autunno, imprimono un fascino particolare.
Limpide mattinate, seguite da pomeriggi tempestosi, che risolvevano, poi, in serate stellate. I famosi “temporali della Fiera”, che puntualmente ed immancabilmente, ogni anno, creavano scompiglio e disagi tra gli inermi commercianti, affannati a raccogliere la merce dai banconi espositivi ed a metterla al sicuro o sotto teloni verdi o dentro i polverosi camion la cui funzione di mezzo di trasporto veniva mutata in quella di retrobottega e alloggio con annessa cucina per il “baraccante” e famiglia, e non di rado, passando vicino a questi negozi ambulanti, si intravedeva l’angolo cottura in piena attività e l’odore del sugo e dei peperoni fritti ci accompagnava per bel tratto della nostra passeggiata.
Nei primi giorni la fiera era caratterizzata dalla vendita degli animali che si svolgeva negli ampi spazi, antistanti la strada, dal color giallo oro della folta ristoppia, segno dell’avvenuta mietitura, essendo, allora, quei terreni, ora edificati, seminati a grano.
La compravendita delle bestie avveniva con un rituale e con una teatralità cui assistevo incantato ed affascinato.
Giuramenti ed assicurazioni da parte del venditore circa la salute, l’età e la prestanza dell’animale, specialmente se si trattava di animale da soma o da lavoro cui facevano, immediatamente, seguito atteggiamenti dell’acquirente, ben evidenziati di incredulità e di stupore per l’elevato prezzo .
A far trovare una intesa, un punto d’incontro, alle due divergenti ed interessate posizioni, era spesso preposta la figura del mediatore, i cui sforzi non erano certo diretti ad abbindolare l’acquirente, ma ad una più nobile e complessa attività, basata su competenza e carisma che questi rivestiva, finalizzata a condurre l’uno sulle posizioni dell’altro e viceversa e tale funzione di mediazione si concludeva e culminava nel momento in cui riusciva a far stringere le mani dei due contraenti, il cui atteggiamento però rimaneva sempre di scontentezza e di poca soddisfazione circa la bontà dell’affare appena concluso. Ma era solo sceneggiata; in realtà, ognuno dei due aveva ben valutato e ponderato il prezzo e l’animale.
L’unico che mostrava soddisfazione era proprio il mediatore, che con la verga di salice ben levigata e con l’immancabile fazzoletto legato al collo con cui si asciugava il sudore della fatica appena fatta, si dedicava subito dopo ad altra trattativa.
Elemento estraneo a tutta questa commedia era proprio l’animale oggetto del negoziato. Se ne stava in disparte, ruminando un poco di paglia, come se la cosa non lo interessasse assolutamente e si accorgeva di ciò che era avvenuto nel momento in cui diventava possesso del nuovo proprietario, il quale, con occhi avidi e scintillanti, convinto dell’ottimo affare, lo avrebbe condotto verso un posto nuovo, un lavoro nuovo, un destino nuovo, forse fatale, essendo, qualcuno dei compratori, macellaio di professione. A questo punto, l’animale, con gli occhi tristi e la testa bassa, non poteva fare altro che seguirlo; seguirlo e sperare.
Lo vedevo allontanarsi tenuto alla corda dalla nuova mano che gli imprimeva il percorso guidandolo tra gli altri animali ancora in mostra, tra compratori alla frenetica ricerca dell’affare, tra greggi di pecore e capre, il cui destino era forse migliore, in quanto erano vendute a gruppi e si sa che il gruppo è sempre più forte del singolo;
Passati i primi due o tre giorni, dedicati alla vendita degli animali, la Fiera si strutturava e si andava man mano arricchendo di banchi di merce di ogni genere; tessuti, scarpe, ferramenta, giocattoli, oggetti di terracotta, vimini, ferro battuto, oltre a quelle che ora noi oggi chiameremo di supporto;
cioè, tutte quelle attività finalizzate al sostentamento e all’accoglienza sia dei “feraiuoli”, sia dei visitatori, sia dei pellegrini.
A partire dai più semplici punti ristoro, dove si confezionavano panini di vario genere e dove le bibite venivano mantenute fresche immergendole in una grande tinozza, sempre piena di acqua corrente, fino alle “baracche”, veri e propri ristoranti a conduzione familiare, aperti per l’occasione, dove veniva servita, principalmente, la pietanza tipica; la “Cotta”; particolare spezzatino di carne di capra, arricchito dal sangue e dalle interiora dell’animale.
La Fiera era una infinita tavolozza di colori, un vociare di gente che comprava, che contrattava, di bambini che urlavano incitando i genitori ad acquistare il giocattolo promesso da tempo, di ubriachi mai sazi e pronti ad improvvisare una tarantella ad ogni angolo,di suonatori di organetti, di borseggiatori, di elemosinanti, di zingari questuanti ed ingannatori, di bravi ed onesti mercanti ma anche di affaristi.
Era il posto dove il Sacro ed il Profano perdevano il loro margine netto intersecandosi in una infinità di punti comuni e divergendo in una infinità di contraddizioni.
Questa era la Fiera del Pettoruto e non solo.; per noi era anche l’inizio dell’Inverno che da li a poco sarebbe arrivato e che veniva annunciato da quei temporali violenti ma di breve durata e che tanto facevano disperare i mercanti e le cose che si vendevano, sarebbero tornate utili durante il rigido Inverno; non penso solo agli indumenti di lana ma tutto ciò che si vendeva sembrava dovesse avere una funzione di protezione dal freddo, dalla pioggia, dalla neve. Scarponi, utensili per tagliare la legna, stivali di gomma, coperte,
Anche l’ascia venduta dal ferramenta avrebbe avuto la sua utilità nel tagliare la legna per il fuoco; come le lampade avrebbero illuminato le nostre case, quando con il brutto tempo sarebbe andata via la luce,; come gli scarponi e gli stivali ci avrebbero protetto dal fango e della neve.
Al sette di Settembre, la Fiera si concludeva e ed il fragore, il turbinio di gente, di luci, di musica cessavano, restituendo il posto alla quotidiana calma.
Con un poco di nostalgia si ritornava alla vita di sempre e della Fiera non restava che il pattume lasciato lungo tutto il suo percorso, quale esito dell’avvenuta frenetica attività di mercato.
Scatoloni e scotole vuoti, assi di legno, carta da imballaggio che il vento di Settembre portava lontano, oggetti di ceramica rotti, bottiglie vuote,; una infinità di cose semplici, dentro le quali noi ragazzi frugavamo, alla ricerca di qualche oggetto non rotto, ancora utile , se non di valore.
La Fiera terminava, ma altre cose belle ci venivano riservate dal mese di Settembre. Infatti.
Quei temporali pomeridiani che tanto facevano arrabbiare i mercanti ed i pellegrini, trascorsi una quindicina di giorni, davano vita ad un fenomeno naturale di infinita bellezza, ma anche di infinita gradevolezza per il palato e così, come d’incanto, nel Castagneto, nei boschi di Quercia che circondano il Paese, ecco che apparivano degli organismi vegetali stranissimi, dalla consistenza spugnosa dai colori più disparati, alcuni belli, profumati e buoni da mangiare, altri, altrettanto belli, ma con dentro di se l’inganno del veleno che, in alcune specie , poteva determinare la morte.
Si, a Settembre, se i temporali dei primi giorni erano stati puntuali ed abbondanti, “uscivano i Funghi”. A noi l’arduo compito di dividere i buoni dai cattivi; quelli che ci avrebbero gratificati a tavola da quelli che ci avrebbero provocato, come minimo, un’intossicazione.
Levatacce mattutine, con rientro pomeridiano, come si usa fare negli uffici, con lo scopo di riempire le buste , per i più puritani il paniere di vimini, e ritornare a casa stanchi ma contenti e soddisfatti di poter, la sera, riferire agli amici la quantità e le dimensioni di ciascun cappello trovato e di come questi si mimetizzava sotto le foglie del suo medesimo colore.
Così trascorreva il mese di Settembre e con le sue tiepide ed assolate giornate, con il suo finire, ci consegnava, pian piano, ad un appuntamento molto importante per la vita di noi ragazzi; l’apertura della scuola.
Allora al 1^ di Ottobre, mi riconduce al fascino dell’Autunno più inoltrato, l’Autunno vero, fatto di colori, odori di indescrivibile bellezza.
Durante i primi giorni si entrava nelle aule, ancora calde, diverse da quelle che si erano lasciate lo scorso anno, e immediatamente si avvertiva l’odore tipico di quegli ambienti rimasti chiusi per molto tempo; sotto i banchi si rinvenivano oggetti lasciati da chi ci aveva preceduto e che mai nessuno sarebbe più venuto a ritirare; penne, matite consumate, gomme , fogli di carta riempiti di appunti.
Fuori si avvertiva ancora l’estate che finiva; bellissime giornate di sole , natura ancora rigogliosa e verde; la bella stagione lasciava pian piano il posto all’autunno, che mutava quella miriade di tonalità di verde in una altrettanto infinite tonalità di giallo, che culminava poi nel marrone delle foglie di quercia e di pioppo fino ad esprimersi nel bellissimo rossiccio delle foglie di alcuni alberi limitrofi al fiume.
Per me, che non ero certo uno studente modello, rimanere seduto al banco in quelle prime settimane di ottobre , rappresentava una sofferenza incredibile.
Il mio sguardo, distratto e poco interessato alle prime lezioni, si concentrava e si focalizzava,invece, nel cercare di cogliere, dal ristretto spazio della finestra dell’aula, tutte le varie fasi di queste mutazioni, che presto avrebbero comportato un cambiamento anche nel nostro modo di vivere, conseguenza del freddo che sarebbe, da li a poco, arrivato.
Disturbava questa mia contemplazione, non tanto il chiasso gioioso dei compagni e ancora meno i richiami ripetuti ed urlati della maestra, ma l’ansia; l’ansia che la campanella suonasse dandomi così il via libera per tornare a casa da dove sarei immediatamente uscito, dopo un frugale pasto, per incontrarmi gli amici,con i quali avrei intrapreso una infinita serie di giochi, tutti in armonia con la natura, che sembrava favorisse ed incoraggiasse tutto quello che noi facevamo e l’idea stessa di gioco era strutturata in modo tale che noi potessimo vivere la natura in modo totale.
Si costruivano capanne che durante l’inverno ci avrebbero dovuto proteggere dalla pioggia e dal freddo, si predisponevano trappole per uccelli, si allevavano cuccioli che qualche randagia aveva partorito e abbandonato, si realizzavano fionde, archi, frecce, ed il fiume, l’orto, gli alberi, la terra, il ruscello, il bosco, non erano realtà a se stanti, ma erano parte integrante di noi, ed i giochi altro non erano che l’alibi per poterci interfacciare e sintonizzare con essi.
Ci avventuravamo fino al Castello della Rocca, al Castagneto, alla storica Artemisia, ai Vignali; limiti territoriali, questi, entro i quali, noi più giovani ci mantenevamo.
Diventando più grandi, ognuno per proprie passioni, la caccia, l’escursionismo, l’archeologia, ben altri posti avremmo conosciuto;
Casiglia, l’agognato e bellissimo Campo che ci appariva, nella sua sterminata grandezza e bellezza dopo l’estenuante e tortuosa salita dell’Azzoppatura che fiaccava le gambe anche ai più allenati camminatori.
E ancora: la Mula, maestosa e perennemente innevata; la Muletta, che essendo più vicina ci inganna, sembrando più grande della Mula, ma che in realtà è una sua piccola appendice; Mondea, che riproduce la conformazione del Gran Paradiso; lo Scodellaro, Cerasito, e come dimenticare il punto dove sorge il nostro fiume, i Pisciuotti.
Posti, che oltre ad essere belli ed ancora incontaminati, raccontano la storia ed i sacrifici dei pastori sansostesi.
Storie molto simili a quelle che Corrado Alvaro ha raccontato nel suo bellissimo libro “Gente d’Aspromonte”.
Ecco lo scenario dove si svolgeva la nostra vita di adolescenti e questo è lo scenario da cui tantissimi di noi si sono dovuti sradicare per vari motivi; studio, lavoro, famiglia.
Vivendo ora in una grande città, una metropoli, mi capita spesso di osservare i ragazzi che vagano passando da un autobus all’altro, e che il loro unico contatto con la natura gli viene dallo stare seduti sulle panchine dei miseri e circoscritti giardinetti di cui è dotato ogni quartiere e mi accorgo di quanto sono più sfortunati di noi che avevamo a disposizione quella natura bellissima ed incontaminata.
Non sanno cosa fare e si rifugiano nel computer e nei videogiochi, entrando così, in una realtà virtuale che nulla ha a che vedere con la vita reale e quando, prima o poi, avviene l’impatto con essa, ecco che tutto crolla e affrontare la vita vera diventa ancora più difficile.
Quasi non si accorgono del mutare delle stagioni, se non per il puro aspetto climatico ad esso collegato e se qualcuno di noi volesse raccontare loro del profumo della campagna dopo la prima pioggia d’Autunno o delle nottate fredde e serene d’inverno dove la neve, riflettendo la luce della luna evidenziava i contorni delle montagne da cui spesso si udiva in lontananza l’ululare dei lupi, o se volessimo descrivere la bellezza dell’alba, che dai arriva dalla pianura e che infinite volte ho visto e che, puntualmente, infinite volte, mi ha ripagato dal sacrificio di essermi svegliato così presto; credo che ci guarderebbero esterrefatti e penserebbero che stiamo farneticando.
Caro Pietro, nel tuo racconto vi è un emozionante coinvolgimento emotivo
che pervade la mente di molti di noi; non altrettanto si esterna con un plauso
a chi la rappresenta che in questo caso è stato il tuo. Ho atteso apposta per verificare. avevo ragione nessuno si è inserito. Colgo, però l’occasione per congratularmi con te per il positivo pensiero che alberga nella tua sensibile persona. Grazie per averci emozionato Peppino De Luca
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Carissimo Peppino,
riscontro solo ora il tuo commento, non avendo, quando sono a San Sosti, un computer a disposizione.
Grazie per le parole di apprezzamento che hai avuto nel commentare il mio racconto, ma grazie ancora di più per averlo considerato un qualcosa che come dici tu “tocca la mente di molti di noi”.
Sono tantissime le cose che accomunano noi sansostesi e pochissime le cose che ci dividono e sarei contento se anche queste poche si potessero appianare e far diventare San Sosti come era una volta, dove tutti si stimavano ed erano molto più uniti da solide amicizie, e tu ne sai qualche cosa, considerato che hai qualche anno più di me e che hai sempre operato, volontaiamente e senza scopo di lucro, sia nel campo sociale sia nel campo dello Sport, che in quello della politica locale e cosa importantissima. nel campo della salvaguardia ambientale.
E in riferimento proprio a questa ultima funzione devo dirti che sei stato tra i pochi che hanno assunto una posizione seria, realistica e costante e non ambigua e di comodo sulla necessità di una riperimetrazione del Parco che al nostro Comune nulla di buono ha portato.
Per quanto riguarda l’altro aspetto, che giustamente fai rilevare, posso dirti che anche io mi sto accorgendo che la partecipazione in termini di commenti è forteemente diminuita rispetto agli anni scorsi; fermo restando che tutto questo non significa disinteresse a quello che volta per volta viene pubblicato sul sito.
Oltre tutto, il mio ultimo articolo rappresentava un insieme di ricordi personali e pertanto gli amici lettori non hanno ritenuto dover intervenire.
Un saluto e a presto, Pietro Bruno
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