Di Cesare De Rosis
“L’amore al Romano Pontefice deve essere per noi una grande passione, perchè in lui vediamo Cristo” diceva San Josemaría Escrivá. Di quest’asserzione ne ho fatto un capisaldo di pensiero, e alcuni amici mi rimproverano, a torto o a ragione che la mia è una visione eccessivamente aulica del Papato. Del Pontificato di Papa Benedetto XVI ci rimane, oltre al suo imponente Magistero, la gentilezza, la pazienza, l’affabilità e la dolcezza. In questo momento esprimo un sincero di atto venerazione e di apprezzamento nei confronti di Benedetto XVI. Una preoccupazione è quella di chiudere la scelta di Benedetto XVI nel recinto di una parentesi all’interno della storia bimillenaria della Chiesa. Una storia in cui il papa, uno e infallibile, riceve il suo incarico direttamente da Dio e dallo Spirito Santo che guida le scelte del conclave. Siamo abituati a pensare che si smette di essere pontefici solo morendo, e le eccezioni storiche come quella di Celestino V sono ormai consegnate ad un passato assai remoto che, se non fosse stato per Dante Alighieri, sarebbe quasi caduto nell’oblio generale. La scelta di Papa Benedetto di abdicare è senz’altro spinto da motivi nobili. Io sono abituato a credere quando il Papa pronuncia una cose e quindi ritengo lo abbia fatto per il bene della Chiesa, come ha spiegato. In realtà già altri Papi erano stati tentati dalla rinuncia al Ministero Petrino: in tempi più recenti Pio XII e Paolo VI. Il primo, Pio XII, nel 1943, era pronto a dimettersi. La vicenda, ricostruita negli ultimi decenni dagli storici, prende le mosse da un piano di Hitler per eliminare il pontefice. Un piano che poi va a monte, ma di cui Pio XII era al corrente: tanto che aveva preparato una lettera di dimissioni, come rivelato anni dopo dal segretario di stato Cardinale Domenico Tardini. “Se mi rapiscono – aveva detto Pio XII – porteranno via il cardinale Pacelli, non il papa”. Il pontefice aveva lasciato precise disposizioni per il futuro conclave, da tenersi a Lisbona, oltre all’ordine di occultare o meglio bruciare delicati documenti della Santa Sede affinche’ non finissero in mano nazista. Poi, come si sa, il papa non si dimise, i nazisti rinunciarono al loro piano contro di lui e Pacelli regno’ fino alla morte nel 1958. Cosi’ come Paolo VI, morto nel 1978, che poche settimane prima di morire, ormai gravemente malato, aveva anch’esso pensato alle dimissioni, poi rese non necessarie dall’improvviso aggravarsi del male. Ma qui occorre spendere un altro passaggio. Ormai stanco, deluso, pieno di amarezza, con la salute sempre più flebile e le artrosi che non gli davano pace, con un papato giunto ai minimi storici di prestigio, prossimo agli 80, aveva praticamente preso la sua decisione. Aveva intenzione di rinunciare e ritirarsi in solitudine nell’abbazia di Montecassino, sotto il suo pontificato inaugurata, dopo la ricostruzione. Ne volle parlare per scrupolo col suo amico, il gran filosofo cattolico e accademico di Francia Jean Guitton. Il quale, turbato ma fermo, rispose: “Santità, il papato non è una carica, è una paternità. Non ci si dimette da una paternità”. Stessa risposta gli venne data dal Cardinale Giuseppe Siri.
Scelta sempre radicalmente esclusa, invece, da Giovanni Paolo II, per anni martoriato dal morbo di Parkinson: il suo dolore e la sua malattia rimasero testimonianza del suo apostolato fino all’ultimo giorno. Lungi da me qualsiasi giudizio sul Santo Padre: la logica del giudizio non mi appartiene tanto meno sul Papa. Ma, la presente vuole, semplicemente, essere una valutazione di natura storica aggiornata alla cronaca di coevi eventi. Sono sostanzialmente d’accordo con l’editorialista del Corriere della Sera Massimo Franco. La rinuncia di Benedetto XVI non potrà essere banalizzata o archiviata, magari richiamandosi alla legittimità secondo le norme del diritto canonico. L’immagine dell’istituzione pontificia, agli occhi dell’opinione pubblica di tutto il mondo, viene infatti spogliata della sua sacralità per essere consegnata ai criteri di giudizio della modernità.
Non si può fare un paragone né con Celestino V, che si dimise dopo essere stato strappato a forza dalla sua cella eremitica, né con Gregorio XII, che fu costretto a sua volta a rinunciare per risolvere la gravissima questione del Grande Scisma d’Occidente. Si trattava di casi di eccezione. In duemila anni di storia, quanti sono i Papi che hanno regnato in buona salute e non hanno avvertito il declino delle forze e non hanno sofferto per malattie e prove morali di ogni genere? Il benessere fisico non è mai stato un criterio di governo della Chiesa. Per una volta mi trovo d’accordo con l’oncologo Umberto Veronesi: mi chiedo con emozione e sconcerto se sia stata un decisione giusta! Insomma avrei preferito che restasse. Sono rimasto molto rammaricato. Ma è stato commovente quando ha ribadito che il suo è stato un gesto pieno di amore per la Chiesa e per Gesù Cristo. Lui umile servo nella Vigna del Signore continuerà, nel silenzio della clausura, a dialogare con il suo e nostro Signore attraverso la preghiera. E’ passato da “timoniere” a “rematore”. La preghiera è il remo della Chiesa perchè chi la conduce è il Signore. Se la vediamo così forse ce ne faremo una ragione. Di sicuro è stato un grande pensatore. Uno dei maggiori del nostro tempo. Giuliano Ferrara parla di ratzingerismo. Esso è un realismo, è un razionalismo, un umanesimo moderno, un illuminismo cristiano immerso nella fede, nel divino, senza mai perdere l’ancoraggio della riflessione filosofica e teologica sui principi primi e ultimi, senza mai disconnettersi sia dall’opera collettiva e corporea che è la vita della Chiesa, con la sua liturgia, sia dalla responsabilità della coscienza individuale, soggettiva, in dialogo con Dio che funge da suggeritore e parla dalla sua misteriosa buca di proscenio. Con i sentimenti di tutti gli altri fedeli cattolici concludo mostrando l’affetto per questo grande Papa e con la preghiera accompagnarlo in questo momento che solo lui e Dio sanno quanto debba essere intimo e sofferto.