PARTE PRIMA

Prima di parlare di infarto cardiaco bisogna fare alcune importanti premesse. Il cuore è un organo costituito da: 1) un rivestimento esterno, detto sacco pericardico 2) il tessuto cardiaco vero e proprio, che è un muscolo, chiamato miocardio 3) un rivestimento interno, chiamato endocardio. Il miocardio, che è la parte che ci interessa, è un muscolo la cui cavità è suddivisa in quattro camere: due atri e due ventricoli. In queste camere passa il sangue per essere poi pompato nei polmoni (il sangue da ossigenare) e nella circolazione periferica (quello ossigenato). Il sangue ossigenato porta l’ossigeno a tutti i tessuti per farli sopravvivere; anche il muscolo cardiaco è un tessuto che ha bisogno di ossigeno e quindi di sangue per sopravvivere e poter svolgere il suo lavoro di pompa. Nel momento in cui l’afflusso di sangue al muscolo cardiaco viene interrotto per l’ostruzione di un ramo delle arterie coronariche (i vasi che irrorano il miocardio), la parte di tessuto cardiaco interessata muore.
Le cause che possono alterare il circolo coronarico si inseriscono in un campo più ampio di vasculopatia generale, come succede nei casi di ipertensione arteriosa, diabete mellito, aumento dei grassi cattivi nel sangue, tabagismo, familiarità ecc. Questi fattori sono la causa di un processo che danneggia la parete dell’arteria coronarica, causando su di essa la formazione di placche che restringono il calibro delle arterie. Su queste placche il sangue scorre male, il gorgo che ne consegue favorisce l’aggregazione di particelle, chiamate piastrine, e quindi la formazione di un tappo vero e proprio. Il tappo piastrinico è l’ultima fase del processo di occlusione dell’arteria coronarica. Con la ostruzione del ramo coronarico, si ha l’interruzione del flusso sanguigno al miocardio e quindi la morte della zona rimasta priva di sangue. Si realizza così l’infarto cardiaco acuto, patologia molto grave e frequente. La sintomatologia di questa malattia si presenta in forma acuta e consiste in dolore al petto che può irradiarsi alle spalle, alle braccia, alla gola e fino all’arcata dentaria. Non sempre però il dolore ha questa irradiazione, può variare: può rimanere localizzato al petto, più in basso a livello dello stomaco, può manifestarsi soltanto agli arti superiori, soprattutto all’arto superiore di sinistra, ma è quasi sempre accompagnato a sudorazione fredda, profonda debolezza, mancanza d’aria e grande stato di angoscia del paziente che vive una sensazione di morte imminente.
Molte volte è l’espressione del paziente che ci indirizza verso il sospetto diagnostico di una patologia infartuale acuta.
Il paziente che viene colto da questa sintomatologia, deve subito chiamare il medico oppure, ancora meglio, raggiungere con un’ambulanza, quando è disponibile o con altro mezzo, il più vicino Pronto Soccorso. Nel Pronto Soccorso è possibile fare subito un tracciato elettrocardiografico ed un prelievo del sangue per vedere se il tasso degli enzimi cardiaci è normale o aumentato. L’aumento di questi enzimi pone diagnosi di certezza di infarto cardiaco acuto. La diagnosi più immediata ce la dà l’elettrocardiogramma, suffragata poi da un’ecografia del cuore e dal risultato degli enzimi.
Nella seconda parte, sono trattati i presidi terapeutici, anche quelli più recenti che hanno sensibilmente migliorato la prognosi dell’infarto cardiaco.
PARTE SECONDA
Per quanto riguarda la terapia dell’infarto bisogna subito dire che il medico che vede il paziente, una volta sospettata la patologia infartuale ed esclusa, sia da un punto di vista anamnestico che clinico, la diagnosi di una patologia ulcerosa deve subito somministrare al paziente tre compresse di cardioaspirina ed avviarlo all’0spedale. Nella struttura ospedaliera, fatta la diagnosi di certezza, il paziente viene sottoposto ad una terapia molto efficace che a partire dagli inizi degli anni 80, ha modificato di molto ed in meglio la prognosi dell’infarto del miocardio. la terapia, peraltro molto costosa, viene chiamata trombolisi e consiste nella somministrazione di un enzima che va a sciogliere il grume che occlude la coronaria interessata, consentendo la riperfusione della zona colpita. Se questo trattamento viene fatto entro le quattro ore dalla comparsa dell’evento si ha una riduzione considerevole dei danni cardiaci che comporta un episodio infartuale. Il suddetto protocollo, peraltro abbastanza efficace, in alcune strutture ospedaliere di eccellenza, è considerato obsoleto perché di fronte ad un episodio infartuale acuto, l’operatore sanitario entra direttamente,con un cateterino, nell’arteria coronarica occlusa e la dilata con un palloncino (metodica che va sotto il nome di angioplastica), e subito dopo inserisce un tubicino, (stent coronarico) che mantiene pervio il vaso. Il paziente dopo pochi giorni può essere dimesso. Questo protocollo risulta efficace nel limitare i danni, se si interviene entro le 6 ore dall’esordio clinico dell’infarto. Prima di questa metodica, assolutamente meno invasiva e più efficace, si usava effettuare un intervento, più invasivo, di vera e propria cardiochirurgia applicando dei bypass aorto-coronarici. Questa tecnica consiste nell’asportare un pezzo di vaso da un’altra parte del corpo e con esso fare un ponte tra l’Aorta ed il tratto dell’arteria colpita, a valle del punto di occlusione. Inizialmente per questo intervento si usavano vasi venosi che si prelevavano dall’arto inferiore, successivamente si è dovuto ricorrere a pezzi di vasi arteriosi che si prelevano dall’arteria mammaria per ottenere una maggiore durata del bypass, essendo la parete arteriosa più resistente di quella venosa. Questa metodica caduta ormai in disuso, viene riesumata la dove, le condizioni del ramo coronarico leso, non consentano di effettuare l’intervento di angioplastica. Concludendo diciamo che la cura più efficace dell’infarto in fase acuta è demandata alla cardiologia interventista o alla cardiochirurgia con le adozione delle metodiche su esposte. Rimane un passo indietro la terapia farmacologia che, comunque, ancora oggi salve tanta vite umane con l’adozione dei farmaci trombolitici. Qualche parola va scritta sulla prevenzione dell’infarto del miocardio perché in questo campo molto si può fare. Per prima cosa bisogna educare tutti, anche i non ammalati, ad un corretto stile di vita che preveda un’alimentazione povera di grassi animali e ricca di acidi grassi polinsaturi (qualsiasi dietologo può prescriverla), l’abolizione del fumo e dello smoderato uso di sostanze alcoliche e molto movimento: si parla di almeno 4 km al giorno di cammino. Ove mai dovessero far capolino delle avvisaglie rapportabili ad una patologia coronarica come i dolori toracici che improvvisamente compaiono e scompaiono, associati a fattori di rischio quale la familiarità, il fumo di sigaretta, l’ipertensione arteriosa, una vita molto stressata o sedentaria, si consigliano dei tests che possono evidenziare lo stato delle coronarie ed essere predittivi anche di patologia infartuale. Se questi tests, di cui il più importante è il test da sforzo, dovessero risultare positivi per insufficienza del circolo coronarico, bisogna sottoporsi ad esame coronarografico per valutare, attraverso l’immagine, lo stato del letto coronarico con gli eventuali punti di ostruzione. In caso di positività di questo esame, si ha l’indicazione a sottoporre il paziente ad intervento di angioplastica in tempi molto precoci, scongiurando il pericolo dell’instaurarsi di questa patologia. Da parte mia, rimanendo nell’ambito della prevenzione delle persone a rischio, consiglio anche, salvaguardando lo stomaco, l’assunzione di una compressa di cardioaspirina al giorno. L’acido acetil-salicilico, contenuto nella cardioaspirina, svolge un ruolo molto importante nell’ostacolare l’aggregazione delle piastrine e quindi la formazione del tappo piastrinico che tanta parte ha nella patogenesi dell’occlusione coronarica.
Giovanni Rosignuolo
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