Un importante esempio di Iconografia Mariana: L’Achiropita di Rossano.

Di Antonio Adamo

INTRODUZIONE

Il secolo IX, a partire soprattutto dall’827, data di inizio della conquista araba della Sicilia, fu un periodo di eccezionale fortuna per le conquiste dei Saraceni, soprattutto in Italia meridionale. Negli ultimi decenni  dello stesso secolo cominciò tuttavia la controffensiva bizantina che  troverà il suo culmine negli anni 885 – 886[1].

In questa temperie storico culturale si inserisce l’icona della Madonna Achiropita. La presente asserzione sarebbe manchevole e generica se non ci si attenesse a considerazioni storico – artistiche maggiormente documentate.

A differenza di quello sull’architettura, il discorso sulla pittura riguarda in gran parte la produzione posteriore al periodo della seconda ellenizzazione. Difatti se è vero che in Basilicata, e in particolare nella regione del Vulture, l’accoglimento di temi e modi occidentali fu più precoce e più incisivo,è pur vero che anche lì le persistenze bizantine furono consistenti. Più marcate e più durature esse si registrano in Calabria, ma qui si conservano anche testimonianze del periodo più antico, le quali, per quanto spesso ridotte a miseri lacerti,sono sufficienti a fornirci,se non un quadro organico, perlomeno un’idea delle preferenze della pittura fiorita nella regione[2].

Un’opera pittorica così come un’opera letteraria o un documento storico, per poter essere valutata è necessario che presenti un “testo attendibile”. Accade a volte, però, che dopo aver attraversato i secoli, per varie ragioni, l’opera giunta fino a noi presenti delle “corruzioni” rispetto all’originale, dovute all’errore di un copista per il documento letterario, agli interventi non ortodossi di restauratori, per il documento pittorico o all’opera di un falsario per il documento storico. Poiché il più delle volte di tali opere non è possibile prendere visione degli “autografi” , è necessario risalire, versione dopo versione, il più vicino alla stesura del “testo” originale dell’autore[3]. Quanto appena detto è valido per un qualsiasi tipo di documento,sia esso scritto, pittorico, scultoreo, architettonico e così via. Prima di procedere ad una analisi sistematica  dell’affresco in questione, ritengo siano utili alcuni riferimenti sull’iconografia mariana in generale.

I

La figura di Maria nell’iconografia orientale

 

Da duemila anni, l’arte, nelle sue molteplici espressioni, ha raffigurato la Beata Vergine Maria, e si può asserire che Essa è la “creatura umana” più raffigurata in tutti i tempi[4]. La ritroviamo infatti, rappresentata da sola o con il Bambino in braccio, oppure con i santi o circondata dal coro degli angeli.

E’ nel II secolo che comincia a divulgarsi, negli “scritti apocrifi”, la figura fisica di Maria. Certo il ritratto della Vergine fatto dai primi cristiani, è quello religioso e morale anche se in tanti, soprattutto poeti antichi della Siria, non indugiarono nell’esaltarne anche la bellezza fisica.

Un primo ritratto di Maria, ci proviene da sant’Andrea da Creta, che riprende la descrizione dell’icona di S. Luca: «Ma anche il giudeo Giuseppe racconta che il Signore era stato visto nella stessa maniera: con sopracciglia congiunte, con occhi belli, con viso lungo, alquanto curvo, di buona statura, come certo appariva dimorando insieme con gli uomini; similmente l’aspetto della Madre di Dio, come oggi si vede (dall’immagine) che taluni chiamano romana». Un’altra significativa descrizione venne fatta da un autore greco dell’XI secolo, Giorgio Cedreno: «Maria era di piccola statura, scura di pelle, con i capelli biondi, con occhi chiari e piccoli, con sopracciglia marcate, naso piccolo, mani e dita affusolate»[5]. Anche un sacerdote del convento di Callistros a Costantinopoli, dell’VIII, IX secolo, Epifanio, dopo aver dato una magnifica immagine dell’aspetto interiore di Maria, si sofferma sulla descrizione fisica: «Era di alta statura, benché alcuni dicano che superasse solo i limiti della media. Il colorito, leggermente indorato dal sole della patria, ritraeva il colore del frumento. Biondi i capelli, vivaci gli occhi, un po’ olivastra la pupilla. Le sovracciglia arcuate e nere, il naso un po’ allungato, le labbra rosse e colme di soavità nel parlare. Il viso, né tondeggiante né aguzzo, ma elegantemente ovale; le mani e le dita affusolate».

Le descrizioni sembrano coincidere con il famoso ritratto fatto da S. Luca. Secondo un’antica tradizione, tramandata dalla chiesa d’oriente, tale ritratto, viene ritenuto l’immagine più veritiera della figura di Maria poiché, secondo il racconto, la Vergine avrebbe posato dal vivo per l’evangelista. Altre tradizioni invece, parlano di tre ritratti eseguiti da S. Luca, due raffiguranti la Vergine con il Bambini in braccio e uno che la ritrae da sola. Da qui, sarebbero poi sorte, una serie innumerevole di copie sparse in tutto il mondo.

Molte teorie, sia storiche che leggendarie, sono state affermate rispetto alla fondatezza, o meno, dell’originalità del quadro dipinto da S.Luca. Qualunque sia la verità, l’icona, eseguita a Gerusalemme, fu mandata nel V secolo a Costantinopoli dove fu venerata come autentica poiché, l’abbigliamento con cui era ritratta la Vergine, era la riproduzione esatta delle reliquie conservate nei santuari di Blacherne e di Chalcoprateia.

L’abbigliamento della Vergine, costituito dalla tunica, dal mantello e dalla cintura, è quello tipico siro-palestinese. La tunica, di colore solitamente azzurro, era lunga fino alle caviglie e formata da tre fessure, una per la testa e le altre due per le braccia e veniva stretta sui fianchi da una cintura fatta di stoffa. Sopra ad essa veniva posta la sopraveste, o mantello, detto “maphorion”, che aveva solitamente un colore scuro ed era di forma quadrata.

Per ciò che riguarda il colore degli abiti indossati dalla Vergine, col tempo si è individuata una precisa simbologia. Padre P. Florenskij, che ha condotto degli approfonditi studi scrive rispetto a questo argomento: «La Santissima Vergine Maria viene doppiamente onorata, in sé come Semprevergine e in rapporto a Cristo come Deipara, e nelle sue apparizioni porta manti e vesti di colori differenti. Quando si mostra come sempre Vergine, come protettrice della Verginità, cioè come Vergine per essenza, porta un manto azzurro o celeste. Invece, quando appare come Deipara, cioè come Madre per essenza, il suo manto è purpureo (il colore della dignità regale e della spiritualità), oppure rosso (il colore della sofferenza e dell’amore infuocato)[6]».

La lunga lotta iconoclasta, vietò agli artisti di riprodurre immagini della Madonna, a meno che non fossero approvate dalla chiesa. Così essi dovettero riprodurre fedelmente, i pochi modelli già esistenti e venerati da sempre. Le immagini sacre della Madonna furono quindi fissate in pochi modelli, e, la Vergine, venne raffigurata in diversi atteggiamenti, a cui, corrispondono degli “epiteti specifici”, ovvero dei precisi nomi sacramentali.

Il culto di Maria in Oriente è molto preponderante e ogni tipo iconografico ha nomi specifici[7].

Sono sette in tutto i principali tipi iconografici: la Brephocratousa, l’Odigitria, l’Eleousa, L’Aghiosoritissa, la Blachernitissa, la Basilissa e la Galactotrophousa.

La Brephocratousa, racchiude in se un’infinità di contenuti, il suo significato è generico, infatti, il termine in greco significa “Colei che porta il Bambino”, ovvero, “Madre con Bambino”.

Maria è raffigurata con il figlio tra le braccia, su un fondo oro che racchiude in sé il significato della Trinità nella gloria celeste.

I lineamenti del volto del Bambino sono quelli di un adulto, poiché egli è il Verbo di Dio incarnato e rappresenta Gesù Cristo, l’Uno della Trinità. Inoltre è raffigurato con una pergamena nella mano sinistra che, sta ad indicare che Egli è il Maestro e, nel gesto benedicente della mano destra, è racchiuso il significato di Santo e di Tuttosanto, termini che in greco si traducono “Panaghion“.

Maria, in quanto Madre del “Tuttosanto” è designata dall’appellativo “Theotokos” o “Deipara“, che significano “Madre di Dio”, è anche l'”Aeiparthenos“, ovvero la Semprevergine, simboleggiata dal velo che spesso copre i capelli, detto in greco “maphorion“, e dalle stelle che si trovano sulle spalle e la fronte. Maria è detta ancora “Panaghia”, che significa Tuttasanta e l’aureola che orna il suo capo e quello del Bambino è il principale simbolo della santità.

Oltre a questi significati specifici la Brephocratousa racchiude in se anche un significato cosmico: l’unità tra la madre e il Bambino simboleggia, infatti, quella tra il Creatore e la sua creatura e, la Madonna stessa risulta essere l’immagine della chiesa che, come Lei, benché vergine, genera i suoi figli.

L’Odighitria, in greco, significa “Condottiera“, “Colei che mostra la via” e il nome stesso deriva dal convento degli Odigi, dove era conservato il ritratto di Maria ritenuto un originale di S. Luca.

La Vergine è ritratta in questa icona in posizione frontale, con lo sguardo fisso rivolto a chi la osserva, è raffigurata generalmente a mezzo busto ma esistono delle copie dove è rappresentata per intero. Sul braccio sinistro porta il Bambino, anch’egli, come la madre, in posizione frontale e reca nella mano sinistra la pergamena mentre la destra è alzata in simbolo di benedizione.

Il Bambino è, come avviene nella maggior parte delle raffigurazioni fissate nei tipi iconografici che andremo ad analizzare, insieme anche adulto, nei lineamenti e nell’intensità dello sguardo.

Gli abiti con cui l’Odighitria è ritratta, differiscono nei colori dalla Brephocratousa, la tunica è verde, il maphorion invece, di colore rosso e, i capelli, sono completamente coperti da una cuffia aderente.

Sembra che il prototipo dell’Odighitria sia andato perduto, ma esistono numerose copie, anche molto antiche, soprattutto in Italia, giunte dalla Grecia e da Costantinopoli.

L‘Eleousa, detta anche “Glykophiloùsa“, è “la Vergine della tenerezza”[8]: La Madonna in questa icona si discosta, nell’atteggiamento, sia dalla Brephocratousa che dall’Odighitria, in cui la Vergine aveva un’espressione distaccata profusa di regalità e serietà.

L’Eleousa ha un atteggiamento nel volto, d’affetto misto a tenerezza. Il Bambino che le sta in braccio porge amorevolmente le guance al volto della Madre e sembra cingerla in un affettuoso abbraccio. Anche L’Eleousa sembra derivare dal prototipo di S. Luca anche se, la più antica rappresentazione, risulta essere fatta interamente in avorio, ed essere di origine egiziana dell’VIII secolo. Infatti tale icona è presente a Costantinopoli solo dall’XI, XII secolo.

Si possiedono tutt’oggi molte riproduzioni di questo tipo iconografico, nelle forme più svariate, dai mosaici agli affreschi, alle monete e, numerose sono inoltre le varianti che vedono il Bambino ritratto in diverse posizioni.

L’Aghiosoritissa è la Madonna venerata all'”AghiaSoros“, ovvero nella chiesa di Costantinopoli dove era custodita la reliquia della Sacra Cintura. Può trovarsi anche sotto la denominazione di “Chalcopratissa“, poiché il santuario di Chalcoprateia si trovava nel quartiere del mercato del rame, detto in greco appunto “chalca”.

Il prototipo sembra essere l’originale fatto da S. Luca, custodito a Costantinopoli dal V secolo e proveniente da Gerusalemme. Durante la sanguinosa lotta iconoclasta, il prototipo fu perso, ma furono fatte molte riproduzioni che, dopo essere state custodite per molto tempo a Costantinopoli, furono portate in un secondo tempo in Italia, soprattutto a Roma, in Grecia, Germania e Russia.

L’Aghiosoritissa è raffigurata senza il Bambino, solitamente a mezzo busto, e appartiene al “tipo” dell'”Orante“. Il suo sguardo è rivolto all’osservatore anche se non è diretto come avviene nell’Odighitria o nella Brephocratousa, e, le mani, sono levate in cielo in atto di preghiera.

La Blachernitissa, come il precedente tipo iconografico, è ritratta in atteggiamento orante. Veniva venerata nel santuario costantinopolitano di Blacherne, da qui appunto il suo nome, ed era considerata la Patrona della città, più volte invocata in tempo di assedio nemico, perché la proteggesse per mezzo dei suoi prodigiosi miracoli.

Il santuario di Blacherne andò bruciato, nel 1433, in un rovinoso incendio e l’icona, ritenuta il prototipo originale, si distrusse. Nonostante ciò molte furono le riproduzioni su monete, affreschi, stoffe e naturalmente icone.

Esistono due varianti della Blachernitissa, una che vede la Vergine raffigurata con il Bambino ritratto in posizione frontale, l’alta da sola. Ambedue le varianti possono essere ritratte a mezzo busto o per intero.

La Basilissa è un tipo iconografico affermatosi soprattutto dopo la lotta iconoclasta, anche se, nell’arte romana catacombale, era presente la figura trionfale della Vergine. Essa è raffigurata infatti, su di un trono, nelle vesti della Basilissa, ovvero di “Imperatrice“, “Regina“. Si trova raffigurata generalmente, seduta in trono con il Bambino tra le braccia e circondata dal coro degli angeli e dei santi.

Il prototipo sembra essere di origine bizantina poiché, questo tipo iconografico, è presente in tutte le zone dove l’arte bizantina è approdata, lo ritroviamo infatti, in Siria, Cappadocia, Egitto, Cartagine, Italia, Russia, Romania e Bulgaria.

Solitamente all’icona della Basilissa viene riservato, nelle chiese, un posto d’onore, poiché essa è venerata come la “Regina degli angeli e dei santi”, “Imperatrice del creato”, “Gioia di Dio”, “La più pura di tutte le donne” ed infine poiché la Basilissa è considerata “la bella e dolce insieme”,tale icona viene posta , infatti, nel catino absidale centrale delle chiese.

La Galactotrofousa è la “Madonna allattante”. Il tipo iconografico è quello classico, che vede la Vergine a mezzo busto, ma, può trovarsi anche ritratta seduta o in piedi, con il Bambino retto col braccio sinistro ma con la mano destra, a differenza dei precedenti modelli iconografici, gli porge il seno. Nel volto sia della Madre che del Figlio, è impressa grande regalità ma anche distacco.

Le più antiche rappresentazioni della Galactotrofousa, risalenti al VI secolo, si trovano in Egitto e sembra siano di retaggio pagano, poiché imitano modelli egiziani come la Dea Iris, anch’essa allattante. Dall’Egitto sembrano poi essere passate in Siria, nei Balcani e in Grecia, mentre poco frequentemente si trovano a Bisanzio e nel mondo slavo.

Un poeta siculo del IX secolo, parla nei suoi versi dello splendore della Vergine che allatta il Bambino. Egli è conosciuto con il nome di Giuseppe l’Innografo :«Tu porti colui che tutto porta e nutri colui che dà cibo a tutti. Grande e tremendo il tuo mistero, o Vergine Madre di Dio, arca venerata della santificazione».

Sembra dunque che gli antichi, parlassero senza il minimo pudore del grande mistero della Vergine allattante e del suo “Beatusventer“, della Madre di Dio, e del suo glorioso ruolo di nutrice.

Ma addentriamoci ora a quello che è oggetto del nostro studio.

 

II

L’Achiropita di Rossano

Ogni popolo ebbe il suo culto, ogni città ebbe la sua venerazione a Maria, onorata specialmente sotto qualche particolare denominazione[9].

Nella città di Rossano la Madonna è invocata col nome di Achiropita, ossia “non dipinta da mano umana”. Ma qual è l’origine di queste icone “non fatte da mano umana”? Sembra che la denominazione sia stata applicata alle icone della Vergine ad imitazione della nota storia o leggenda del Volto Santo impresso sul panno e inviato dal Signore al  re Abgar. Da qui derivarono le iconiachiropite del Cristo e da queste, probabilmente, quelle della Madre di Dio[10].

Le icone dipinte dall’ Evangelista Luca vengono considerate “divinamente ispirate” come i testi sacri da lui redatti e, anche per tale motivo, queste immagini prendono il nome di “Achiropite”. Le origini dell’iconografia mariana sono legate alla tradizione liturgica ortodossa che narra di San Luca che, dopo la Pentecoste, rappresentò tre icone della Vergine Maria quali quelli dell’Hodigitria, dell’Eleousa e dell’Aghiosoritissa[11].

Sulla Madonna di Rossano, discordanti sono le opinioni circa la datazione.Nel 1996, l’indagine dell’Edithec ha confermato che l’affresco risalirebbe all’VIII secolo circa[12]. Alla luce di ciò si può guardare con benevolenza il riscontro quando si dice che S. Nilo (nato nel 910), secondo gli scritti di S. Bartolomeo suo discepolo, fosse legato e devoto alla Madonna Achiropita. Ovviamente non ci si può esimere dal tener conto della leggenda, secondo la quale – come ci informa il Giovannelli[13] – l’icona sarebbe stata trovata miracolosamente verso l’anno 580 dal monaco eremita Efrem. Diversamente, dunque, da quanto afferma con una certa sicurezza l’Edithec, la datazione andrebbe anticipata, ma è una tentazione che conviene evitare ed attenersi ai fatti. Inoltre Biagio Cappelli ritiene probabile che l’icona Achiropita non sia l’Odigitria di S. Nilo, ma opera di monaci del Patire portata a Rossano allorchè iniziarono i lavori della nuova Cattedrale.

Nei secoli successivi a S. Nilo iniziano a delinearsi argomenti più attendibili dal momento che TeofaneCerameo, Arcivescovo di Rossano, nell’omelia XI recitata nella Cattedrale nel 1140 ringrazia la Madonna “perché lo ha fatto degno di venerare la sua immagine  Acheropita”. Nel 1230 il monaco Giovanni Rossanese, attenendosi alla leggenda prima citata, inizia col dire : “Sono trascorsi 700 anni dacchè Ella vi dimora…[14]”.

Una importante segnalazione avviene per mano dello storico francese F. Lenormant nel 1881, che suggerisce uno studio sistematico agli studiosi che vorranno esaminarla. Non esclude, tuttavia, che possa essere anteriore agli Iconoclasti o contemporanea alle loro persecuzioni, da cui la Calabria rimase preservata, offrendo un asilo sicuro ai monaci pittori, che fuggivano i carnefici dell’Oriente[15]; tale riflessione è ben accolta da Alfredo Gradilone che ne documenta l’esistenza a tempo abbastanza più remoto del XII secolo esponendo relative ed interessanti documentazioni come le Omelie attribuite a TeofaneCerameo un diploma del Re Tancredi[16] .

Per quanto concerne l’affresco, Giuseppe Roma, concordando con quanto già espresso da Biagio Cappelli nel 1962, data l’affresco all’VIII-IX secolo (trovando poi riscontro con i rilevamenti dell’Edithec) e lo inquadra, da un punto di vista stilistico, in una corrente artistica “popolare e monastica”[17]. Diversamente Marina Falla Castelfranchi ritiene l’opera “reliquia della primitiva cattedrale di Rossano, come pure il pilastro su cui è campita”. Dal punto di vista iconografico fu considerata dalla studiosa una variante dell’Odigitria e influenzata da modelli romani databili al VII secolo[18]. Pur mantenendo saldo il richiamo a modelli iconografici romani più antichi la Falla Castelfranchi, in fase di datazione della pittura rossanese, opta per una cronologia intorno al X sec., venendo così a coincidere con l’istituzione e l’edificazione della prima sede episcopale, da collocare tra la fine del IX e il X sec. Giorgio Leone, che seguì l’intervento di restauro del 1984, ipotizzò la presenza nello “strato affrescato sottostante” di alcuni resti di un ciclo figurativo più antico datando l’opera tra il IX e X sec[19].

Maria Pia Di Dario Guida, che cronologicamente assegnava l’immagine al sec. X, evidenziando come l’Achiropita di Rossano, dal punto di vista iconografico, presentasse riscontri con la versione più antica dell’Odigitria bizantina. Nonostante forti affinità con esempi come la Madonna in piedi del Vangelo di Rabbulla e la Vergine della cupola della Chiesa della Dormizione a Nicea, l’affresco rossanese è da accostare, secondo la studiosa, ad esempi di ambito romano e meridionale[20]. La studiosa, peraltro, più di recente, ha sottolineato come la Madonna di Rossano sia da considerare una variante dell’Odigitria, una tipologia presente in un gruppo di immagini studiate dal Kondakov, in cui si riscontra la particolarità iconografica della mano destra incrociata sulla sinistra. La Madonna di Rossano, secondo la Di Dario Guida, non può essere considerata un’Odigitria per alcune considerazioni di ordine storico, iconografico e teologico[21]. La posizione delle dita della mano destra della Madonna Achiropita indica il numero di otto ed è chiamata ogdoade, simbolo della Resurrezione[22].

Volendo sintetizzare, si deve tener conto che tale iconografia si ritrova già a S. Maria Antiqua a Roma nella Madonna con le mani incrociate e nella SalusPopuli Romani che allo stato attuale si presenta come una rielaborazione dei secoli XII-XIII[23] ma che è da datare al VI sec. circa. Nel 2003 un’interessante nota di Giorgio Leone modifica la sua precedente asserzione e  ritiene l’Achiropita, anche in virtù degli scavi archeologici della Cattedrale in cui l’affresco è custodito, ascrivibile al sec. VIII; mentre stilisticamente è stata apparentata a testimonianze  più protratte dei sec. IX – X, anche calabresi e legate alla miniatura[24]. Valentino Pace assegna l’affresco di Rossano al X secolo[25]. Per quanto dunque è dato sapere dalle fonti a disposizione,  da una più approfondita lettura storico-artistica e alla luce di oculati rilevamenti “diagnostici”, un interessante contributodel 2008 ha proposto un’assegnazione dell’icona di Rossano tra l’VIII e il IX sec[26]. E questa sembra essere l’asserzione più convincente. Se risulta importante risalire alla “matrice” della Madonna di Rossano, ormai comunemente legata alla SalusPopuli Romani, altrettanto considerevole è annotare che l’icona ha avuto un seguito soprattutto nell’età della controriforma come ricorda la Di Dario Guida e non solo in Italia. Nel meridione della Penisola importante esempio è il quadro che ritrae la Vergine con le mani incrociate conservata nel Museo di Capodimonte, come pure la Madonna degli orefici a Cosenza eseguita nel XVII secolo. Sulla derivazione iconografica e cultuale del dipinto votivo di Cosenza dall’icona di S. Maria Maggiore occorre annotare che proprio a partire dagli anni in cui Carlo Borromeo era stato arciprete della basilica romana (1564-1572), aveva avuto inizio il fenomeno delle copie ricavate dalla Salus e diffuse per il mondo dalle missioni gesuitiche, dal Brasile alla Cina ai paesi dell’Europa del Nord, mentre il potere salvifico dell’icona andava assumendo sempre più una connotazione antiereticale. Alla tipologia della Madonna dalle mani incrociate si collega pure la Madonna della Lettera di Tropea, che attenendosi alle norme e alle prescrizioni tridentine, si distacca dalle auliche icone orientali e si trasforma in familiare e accomodante immagine di devozione[27].

 

CONCLUSIONI

Il culto dell’Achiropita di Rossano, dunque, trascende il tempo e lo spazio. Anche in altre località e in forme diverse la devozione e l’iconografia si è diffusa. Un esempio è il caso dell’Achiropita del Vallone di Rovito.

Un venditore di olio, sorpreso da un violento temporale, riuscì a salvarsi aggrappandosi ad un grosso masso che fuoriusciva dalla furia delle acque nel Vallone di Rovito. In quei momenti di paura, l’uomo si rivolse con fede alla Madonna venerata a Rossano con il titolo di Achiropita, non fatta da mano d’uomo, chiedendole la grazia di aver salva la vita. Per riconoscenza verso la Vergine, costruì con le sue mani un’edicola con l’Icona dell’Achiropita, sistemando in bella evidenza il masso che gli aveva permesso di salvarsi[28].

  


[1] F. MAZZA (a cura di), Rossano – Storia, cultura economia, Rubbettino, Soveria Mannelli 1996, 43.

[2] M. ROTILI, Arte bizantina in Calabria e in Basilicata, Di Mauro, Cava de Tirreni 1980, 49.

[3] G. ROMA, La Madonna e l’Angelo, Rubbettino, Soveria Mannelli 2001, 15.

[4] G. LEONE, Di alcune immagini della Beata Vergine Maria nell’attuale diocesi di Cassano allo Jonio, Publiepa, Paola (CS) 1999, 21.

[5] G. GHARIB, Le icone mariane, storia e culto, Città Nuova, Roma, 1993, 46; P. FLORENSHIJ, La colonna e il fondamento della verità, Rusconi, Milano 1974, 634-638.

[6]P. FLORENSKIJ, La colonna e il fondamento della verità, Rusconi, Milano 1974, 634

[7] Cfr. M.P. DI DARIO GUIDA, Iconedi Calabria e altre icone meridionali, Rubbettino, Soveria Mannelli 1992, 29-38.

[8] G. LEONE,«Sulle iconografie bizantine della Madonna in Calabria, Compilate da G. Cappelli» in Calabria Nobilissima XL-XLI (1988-1989),48.

[9] F. CHIDICHIMO, Breve cronistoria sull’origine del titolo mariano: Madonna di Costantinopoli, Plataci2004.

[10] G. FERRARI, «I prototipi delle iconi. L’Achiropita di Rossano e Nuova Odigitria di Corigliano» in VeteraChristianorum 3(1978), 284-294.

[11] Cfr. G. GHARIB, Le icone mariane – Storia e culto, Città Nuova,  Roma 1988; M. P. DI DARIO GUIDA, Icone di Calabria,37.

[12] Cfr. L. RENZO, L’Achiropita e la sua Cattedrale-Cuore di Rossano,Grafosud,  Rossano 2003, 41-43.

[13] G. GIOVANNELLI, S. Nilo di Rossano fondatore di Grottaferrata, Badia di Grottaferrata 1966, 14.

[14]S. VALTIERI (a cura di), Il bene culturale come strategia didattica, Falzea, Reggio Calabria 2002, 246-249; cfr. B. CAPPELLI, Iconografie bizantine della Madonna in Calabria, Istituto grafico tiberina, Roma1922.

[15] F. LENORMANT: La Grande Grèce, Paris 1881. Dal vol. I, Litorale del Mar Jonio, Frama Sud, Chiaravalle Centrale (CZ), 1976, 312-314; cfr. C. SANTORO, La Cattedrale di Rossano e l’icona dell’Achiropita, Museo Arte Sacra, Rossano 1981, 60- 61.

[16] A. GRADILONE, Storia di Rossano, Mit, Cosenza 1990, 68-71

[17] G. ROMA, La Madonna e l’Angelo,Rubbettino,Soveria Mannelli 1992, 25.

[18]Cfr. M. FALLA CASTELFRANCHI, La pittura in Calabria (secoli IX-XII),Rubbettino,Soveria Mannelli ,1989.

[19] G. LEONE, Icone della Theotòkos in Calabria.Appunti per un catalogo, Abramo, Catanzaro 1989

[20]M.P. DI DARIO GUIDA, Icone di Calabria, Rubbettino, Soveria Mannelli 1992,37.

[21]M.P. DI DARIO GUIDA, La cultura artistica in Calabria dall’alto medioevo all’età aragonese, Gangemi,Roma 1998,18.

[22] Circa la simbologia del numero otto, la questione è più complessa dai quanto riferito per cui si rimanda al testo: A. QUAQUARELLI, Retorica patristica e sue istituzioni interdisciplinari, Città Nuova, Roma 1995; S. VALTIERI, Il bene culturale, 248.

[23] M.P. DI DARIO GUIDA, 1992, Icone di Calabria, 33.

[24] G. LEONE, Traccia per una storia dell’arte in Calabria in Anteprima della Galleria Nazionale di Cosenza, a cura di R. VODRET , Milano 2003 , 23.

[25] Cfr. M. BERGERFascino e presenza dell’Icona nell’Europa Occidentale e Meridionale», in V. PACE (a cura di) MariaRegina, Milano 2008.

[26] G.C. DE ROSIS, «Virgo Achiropita: studi critici, revisioni e nuove asserzioni sull’affresco di Rossano e le sue derivazioni» in KatundiYne,  XL/134 (2009),  28.

[27] B. AGOSTI,«Spunti di letteratura artistica calabrese nell’età della Controriforma», in G. LEONE (a cura di) Pange Lingua, Abramo, Catanzaro 2002; cfr. M.P. DI DARIO GUIDA,Icone di Calabria,  207.

[28] P. FALBO, L’icona dell’Achiropita nel vallone di Rovito. Storia, tradizione, pietà popolare, preghiere, poesie e canti mariani,Editoriale Progetto 2000, Cosenza 2009.

-Il presente saggio è stato oggetto di studio presso Seminario Chiese Orientali nell’Anno Accademico 2011 – 2012.

 

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